Omelie del Vescovo di Cefalù
S.E.R. Mons. Giuseppe Marciante
Veglia di preghiera nell'ottavo centenario
delle stimmate di San Francesco d'Assisi
Monastero Santa Maria degli Angeli
Castelbuono, 06 febbraio 2024
Gv 7, 37-39; 19, 33-34; 20, 19-22
Carissimi fratelli e sorelle,
ci ritroviamo stasera per riflettere sulle stimmate di San Francesco; un evento straordinario avvenuto 800 anni fa.
Appena pochi giorni fa ho celebrato a Catania la festa di Sant’Agata che, sebbene sia vissuta ben 1700-1800 anni fa, è ancora attuale nel cuore dei Catanesi. La santità significa stare con Gesù e quando si sta con Lui non si muore mai!
San Francesco non potrà mai morire nel cuore degli uomini perché sta con Gesù. Questo è il segno che vivono beati, che vivono nell’eternità.
Allora siamo ben felici di accogliere questo segno che San Francesco volle tenere nascosto anche ai più intimi, nell’umiltà e nel nascondimento.; il che è indice di autenticità.
Diffidiamo da coloro che mostrano manifestazioni divine come uno spettacolo.
Come arriva Francesco a questo evento?
Tutto ha inizio nella chiesa di San Damiano, quando il Crocifisso lo chiamò e gli disse: “Francesco, va' e ripara la mia casa!”. Gli diede una missione: all’inizio si è pieni di tutto l’entusiasmo per quello che si riceve però, man mano che si cammina negli anni, s’incontrano le prove.
Le prove fanno parte della missione e della chiamata di Dio; fanno parte della vocazione battesimale prima, religiosa e consacrata dopo.
Ma non c’è chiamata di Dio senza prova. Ed ecco che, in un momento di grande prova, Francesco sale sul monte della Verna, Sasso Spicco, e lì riceve questa manifestazione d’amore e di consolazione; è andato desolato a quel monte, quasi sentendosi abbandonato, finché a un certo punto arriva la consolazione di Dio.
Ecco: la nostra vita è fatta di momenti di desolazione, in cui ci sentiamo soli, con la sensazione che anche Dio ci ha abbandonati, e momenti di consolazione, in cui sentiamo che non siamo soli e avvertiamo nitida la presenza di Dio accanto a noi. Questo è l’insegnamento che possiamo ricevere da questo evento.
Mi piacerebbe ricordare anche un’altra cosa, prendendo spunto anche dai Vangeli che abbiamo letto. La parola piaga, stigmata, in latino ha un significato ben preciso che attinge dal vocabolario non solo cristiano, ma anche pagano: vulnus, ferita.
La stigmata è una ferita. Le piaghe di Gesù sono ferite.
Mi piace approfondire questo termine, vulnus, perché ci dice la vulnerabilità di una persona. In altri termini, Gesù assumendo la condizione umana, è diventato vulnerabile, cioè è diventato fragile e la sua vulnerabilità significa che ha assunto, si è lasciato trapassare, trafiggere dal male dell’umanità del mondo. Ecco il segno delle sue piaghe. D’altra parte, gli Apostoli, quando lo devono riconoscere, come Tommaso, lo riconoscono attraverso le piaghe.
Gesù non è risorto senza le piaghe; Gesù risorge con i segni della passione perché deve essere riconoscibile dai suoi.
E come lo si può riconoscere il Signore risorto? Solo se porta i segni della vulnerabilità.
Quando si ama, si diventa vulnerabili e ci si pone nella disponibilità di essere trafitti. Quando non si ama diventiamo impenetrabili e quindi invulnerabili; nessuna cosa ci tocca, ci trafigge, ci entra dentro. Ecco perché mi piace questo termine vulnus: l’amore resta trafitto.
San Francesco, man mano che va avanti nella vita, diventa sempre più vulnerabile. Ecco perché tutte le questioni che lui, in qualche modo constatava nell’Ordine, non lo hanno reso invulnerabile, ma lo hanno trafitto nel vero senso del termine perché le ha prese su di sé, le ha prese sul suo corpo. Così le questioni della sua anima.
Questa sensibilità dell’amore, questa capacità di lasciarsi trafiggere, mi sembra veramente bella nella spiritualità francescana: farsi vulnerabili è il punto più alto della povertà. Possiamo dire, allora, che con le stimmate Francesco raggiunge il punto più alto della povertà, perché ormai si è lasciato trafiggere dall’amore.
Papa Benedetto XVI, nel discorso a La Verna del 13 maggio 2012 (poco fa citato), dice che in quel luogo San Bonaventura scrisse l’Itinerarium mentis in Deum. In questo scritto, egli ci fa capire come può essere colmata la distanza tra il nostro peccato e l’amore di Dio.
Papa Benedetto, citando lo stesso San Bonaventura, dice che l’oratio: «È il primo passaggio è il gemito della preghiera; ma per avere efficacia la nostra orazione ha bisogno delle lacrime, cioè del coinvolgimento interiore del nostro amore che risponde all’amore di Dio; e poi è necessaria quella admiratio che San Bonaventura vede negli umili del Vangelo, capaci di stupore davanti all’opera salvifica di Dio. È proprio l’umiltà la porta di ogni virtù».
L’altro passaggio, invece, è sulla contemplatio del Crocifisso, che ha una straordinaria efficacia, perché ci fa passare dall’ordine delle cose pensate all’esperienza vissuta, dalla salvezza sperata alla patria beata: «“Colui che guarda attentamente [il Crocifisso] ... compie con lui la Pasqua, cioè il passaggio (Itinerarium mentis in Deum, VII, 2). Questo è il cuore dell’esperienza della Verna, dell’esperienza che qui fece il poverello d’Assisi. In questo Sacro Monte, San Francesco vive in sé stesso la profonda unità tra sequela, imitatio e conformatio».
Cioè, in altri termini, non basta dichiararsi cristiani per essere cristiani e neppure compiere le opere del bene. Occorre conformarsi a Gesù, la conformatio Christi, con un lento e progressivo impegno di trasformazione del proprio essere a immagine del Signore perché per grazia divina ogni membro del Corpo di Lui che è la Chiesa mostri la necessaria somiglianza col Capo. Ora, sono questi i passaggi della vita di San Francesco: dalla sequela passò alla imitatio e quindi, a conclusione della sua vita, alla conformatio.
Si è conformato al suo Signore, ha preso la stessa forma di servo ubbidiente e povero, quindi somigliantissimo a Cristo.
C’è un grande mistero, quindi, dietro queste stimmate.
E sono ben felice che i nostri Frati abbiano voluto la peregrinatio delle reliquie, nell’ottocentesimo anniversario dell’evento delle stimmate.
È una cosa bella perché ci fa riflettere, fermando il nostro sguardo sul Crocifisso e allo stesso tempo facendoci capire quale deve essere la meta dell’itinerario della vita cristiana: arrivare cioè alla conformatio Christi.
E allora ringraziamo il Signore per averci fatto fare questa bella esperienza. Ringraziamo le nostre Sorelle Povere di Castelbuono, per questa grande ospitalità che ci ricordano sempre, insieme ai frati presenti in Diocesi, l’umiltà, la povertà la vulnerabilità di vita del Poverello d’Assisi.