Intervento del Vescovo di Cefalù
S.E.R. Mons. Giuseppe Marciante
Convegno Archeoclub d'Italia - Sede di Cefalù
“L'olivo della Madonna: percorso di valorizzazione e speranza della varietà Leucocarpa”
Santuario di Gibilmanna
Cefalù, 16 settembre 2023
Nel salutare tutti i presenti, rivolgo il mio benvenuto al Presidente nazionale di Archeoclub d’Italia, Rosario Santanastasio, e al mio confratello, Mons. Francesco Milito, Vescovo di Oppido Mamertina - Palmi: anche lui, come me, delegato per l’Ufficio regionale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia, la pace e la salvaguardia del Creato tutti i temi che certamente confluiscono nella giornata di oggi.
Avevo espresso il vivo desiderio che questo convegno si potesse svolgere presso questo Santuario di Maria Santissima di Gibilmanna perché non credo esista altro luogo migliore per affrontare il nostro tema “L’olivo della Madonna”.
Come ben sapete, ogni anno, un Comune della Diocesi di Cefalù offre l’olio per alimentare la lampada che arde davanti all’immagine della Madonna di Gibilmanna.
Conosciamo tutti l’importanza dell’ulivo per le civiltà del Mediterraneo.
“Tra gli ulivi l’acqua è scura quasi blu”: così cantava Mango in Mediterraneo; una canzone che tratteggia magistralmente il paesaggio del Mediteranno profondamente segnato dalla presenza degli olivi, le cui radici si sono spinte ben oltre le profondità del terreno, direi, fino al cuore di molti popoli.
Intrecciando e plasmando cultura e tradizioni esse hanno permeato persino la mitologia.
Dagli Egizi ai Romani, passando per i Greci.
Ricordate il mito per la contesa dell’Attica tra Poseidone ed Atena?
Atena fece scaturire dal terreno una pianta d’olivo vincendo la sfida perché la maggior parte degli Ateniesi votarono per lei. Un mito straordinario dal quale potremmo trarre le origini democratiche dell’Europa.
In Grecia l’olivo era tenuto in grande considerazione: ad Atene leggi severe colpivano chiunque avesse sradicato una pianta di olivo con la confisca dei beni, l’esilio o addirittura la pena di morte.
Pene certamente severe, ma che dovrebbero far riflettere sull’importanza di salvaguardare il Creato: pensiamo ai continui incendi dolosi che devastano ogni anno il Mezzogiorno e che, il più delle volte, vedono impuniti i loro autori.
Ai coloni Greci si attribuisce l’introduzione, tra l’VIII e il VII secolo a.C., della coltivazione dell’olivo in Italia e, in particolare, in quella meridionale.
Tuttavia è certo che l’olivo selvatico, l’oleastro, che cresce isolato, ma in forme boschive, fosse già presente da molti secoli nel territorio di Etruria.
I Romani furono i primi a esercitare le pratiche di potatura e di concimazione più efficaci, a costruire strumenti per la spremitura delle olive e a perfezionare le tecniche di conservazione dell’olio.
Essi consideravano di buon auspicio per i raccolti dei campi la vista degli olivi in fiore e usavano adornare con corone di olivo i cittadini che si erano distinti nel dare prestigio e gloria a tutti.
A Roma, scrive Plinio, un albero di fico, un olivo e una vite (ficus, olea, vitis) crescevano presso il Lacus Curtius.
Guardando ora al nostro territorio, Aurelio Rigoli, studioso palermitano di tradizioni popolari, ha evidenziato una traccia della dominazione araba nel dialetto in riferimento alle piante di olivo allorché gli antichi contadini erano soliti chiamare saracino o saracinesco.
A Cefalù, le olive venivano raccolte in una celletta scavata nel terreno e dalle pareti intonacate detta zarbu, un altro termine arabo. Non dimentichiamo poi che alcuni feudi delle Madonie vantano ancora oggi una massiccia presenza di piante di olivo secolari.
L’olivo rappresenta infine la nostra biodiversità perché ne abbiamo tante varietà.
I popoli del Mediterraneo devono dunque essere popoli pacifici perché sono portatori, piantatori e coltivatori dell'olivo, simbolo per antonomasia di pace.
La raccolta delle olive è stata in passato forte momento di aggregazione e anche un supporto al sostegno economico di tante famiglie, quelle dei nostri contadini.
“Anche l'olio canta” scrive Pablo Neruda in “Ode all’olio”:
Olio,
nella nostra voce, nel
nostro coro,
con
intima
mitezza possente
tu canti:
sei lingua
castigliana:
ci sono sillabe di olio,
ci sono parole
utili e profumate
come la tua fragrante materia.
Non soltanto il vino canta,
anche l’olio canta,
vive in noi con la sua luce matura
e tra i beni della terra
io seleziono,
olio,
la tua inesauribile pace,
la tua essenza verde,
il tuo ricolmo tesoro che discende
dalle sorgenti dell’ulivo[1].
Purtroppo la diletta terra del Mediterraneo, baciata dal sole e ombreggiata dai rami degli olivi, è diventata amara a causa, soprattutto, della forte migrazione soprattutto dei nostri giovani.
Quanto è confortante sapere che, ogni tanto, qualche giovane ritorna addirittura a coltivare la terra. Questo è un bel segnale!
Molte sono purtroppo le terre abbandonate; fenomeno tra le cause degli incendi.
Mi ricordo una canzone di Domenico Modugno:
Sole alla valle e sole alla collina.
Per le campagne non c'è più nessuno.
Cieli infiniti e volti come pietra.
Mani incallite ormai senza speranza.
Fra gli uliveti è nata già la luna.
Un bimbo piange e allatta un seno magro
Addio, addio, amore.
Io vado via.
Amara terra mia.
Amara e bella.
Un canto commovente perché narra l’amarezza profonda di chi parte e lascia la propria terra, ma anche quella della terra che vede partire i suoi figli. Possiamo allora tracciare una lotta mediterranea che accomuna diversi paesi coltivatori nell’olivo e, allo stesso tempo, seguirne una scia di migranti, una lotta che possa unire diversi popoli nel segno della collaborazione e della pace.
Papa Francesco, nell’incontro con i vescovi del Mediterraneo, ha richiamato l’immagine cara a Giorgio La Pira che amava definire il Mediterraneo come il grande lago di Tiberiade attenzionando in particolar modo il fenomeno migratorio[2].
Tutti i popoli che si affacciano sul Mediterraneo, il mare nostrum, dovrebbero avere una solidarietà forte: il Mediterraneo metteva infatti in comunicazione i popoli mentre oggi è stato ridotto a un cimitero: quanti uomini e donne sono costrette, rischiando la vita, a fuggire dalla loro terra a causa della guerra e della miseria proprio attraversando il Mediteranno.
Gli Stati e le stesse comunità religiose non possono farsi trovare impreparati: ne sono interessati sia i paesi attraversati dai flussi migratori e sia quelli di destinazione finale.
Così anche i Governi e le Chiese dei paesi di provenienza dei migranti che, con la partenza di tanti giovani, vedono depauperarsi il loro futuro.
Data la diffusione dell’olivo nella terra di Canaan è facile intuire come esso sia divenuto metafora del popolo di Israele. Nel descrivere la bellezza della terra di Canaan che il Signore promette di dare al suo popolo il narratore del Deuteronomio cita l’olivo tra le delizie di quel territorio:
Terra di frumento, di orzo, di viti, di fichi e di melograni, terra di olivi, di olio e di miele terra dove non mangerai con scarsità il pane, dove non ti mancherà nulla (Dt 8,8).
Leggendo questo brano mi sembra di rivedere la Sicilia, la nostra cara terra.
L’olivo nella Bibbia è concepito come simbolo di bellezza, fecondità ed esuberanza.
L’immagine di Israele come olivo: il profeta Geremia vi ricorre per annunciare il giudizio causato dal peccato del popolo: Olivo verde, maestoso era il nome che il Signore gli aveva imposto con grande strepito sono date al fuoco le sue foglie e i suoi rami sono bruciati (Ger 11,16). Ma il profeta Osea annuncia la promessa che se Israele risponderà all’appello divino con la conversione, ritroverà la forza, si espanderanno i suoi germogli e avrà la bellezza dell'olivo e la fragranza del Libano (Os 14,6).
Il profeta Zaccaria, rivolgendosi agli Ebrei rientrati dall'esilio per incoraggiarli nella riedificazione del tempio e nella ricostruzione di una comunità politica e religiosa fedele alla legge del Signore, racconta della visione di un candelabro con un ulivo a destra ed uno a sinistra: «L’angelo mi disse: “Che cosa vedi?” Risposi: “Vedo un candelabro tutto d’oro; in cima ha una coppa con sette lucerne e sette beccucci per ognuna delle lucerne. Due ulivi gli stanno vicino, uno a destra della coppa e uno a sinistra”» (cfr. Zc 4,1-14).
L’ulivo è stato il grande e muto testimone della preghiera di Gesù nell’orto del Getsemani, l’orto degli ulivi, il cui nome gath shemanim significa precisamente “torchio d'olio” quasi a indicare il luogo dove Gesù, vero ulivo verdeggiante, lasciandosi spremere come le olive, dona con la risurrezione l’olio nuovo dello Spirito, della pace, della benedizione e della vita.
La tradizione ebraica lo conosce anche col nome di Monte dell’Unzione, perché con l’olio ottenuto dai suoi ulivi venivano unti i re e i sommi sacerdoti. Cristo, lo ricordiamo, significa unto con l’olio cioè consacrato.
Davide Maria Turoldo così canta l’orto degli ulivi nella poesia Albero dall’ombra lieve:
Albero di Cristo: “Anche gli olivi piangevano
quella Notte, e le pietre erano più pallide
e immobili, l’aria tremava tra ramo
e ramo: e Lui, tutto un sudore di sangue
- la bocca senza voce - mentre abbracciava la terra”.
Ma gli stessi olivi lo vedranno salire in alto
e sparire nel sole: gli stessi olivi
dai quali i fanciulli avevan strappato i rami
per corrergli incontro: una selva di rami
e di voci a cantargli d'allora l'osanna e alleluia.
L’olio ritorna più volte nella predicazione nelle parabole di Gesù: pensiamo alla parabola del buon samaritano che guarisce e lava le ferite dell’uomo incappato nei brigati con olio e vino oppure a quella delle vergini sagge che fecero la scorta d’olio per attendere l’arrivo dello sposo nel pieno della notte mentre quelle stolte rimasero al buio.
Nell’unzione di Betania ritorna ancora una volta l'olio profumato che viene versato su Gesù.
La Chiesa utilizza l’olio come elemento importante per i sacramenti: l’olio dei catecumeni, l’olio degli infermi e l’olio del Crisma, in greco il Miron.
La luce alimentata dall’olio o dalla cera accompagna la vita del fedele anche fuori dalla liturgia. Accendere una luce davanti a un’immagine sacra significa esprimere con un segno la propria professione di fede e affidare la propria intenzione di preghiera al Signore, alla Madonna e ai santi. Manifesta il nostro desiderio di far sì che le nostre preghiere sia per noi sia per gli altri restino davanti a Dio mentre la fiamma brucia, anche dopo che abbiamo concluso la nostra preghiera.
Esprime anche la volontà di affidare le proprie parole e i propri pensieri al Signore, alla Madonna e ai santi. È una richiesta d’aiuto, di una luce che illumini dall’alto la nostra vita, magari in un momento in cui ci dibattiamo nelle tenebre.
Abbiamo acceso un lume di speranza attraverso un piccolo segno che questa Diocesi ha voluto dare ai nostri giovani: si chiama “Elayon. L’olio del Vescovo” prodotto dagli olivi piantati nel terreno di proprietà della Curia grazie al lavoro di una cooperativa di giovani. Affido questo piccolo lume alla Gran Signura, nome di rispetto verso l’immagine della Madre di Dio, perché i nostri giovani possono trovare le risorse per restare qui in mezzo a noi, nella nostra amata terra.
[1] P. Neruda, Ode al vino e altre odi elementari, Passigli, 2002.
[2] Francesco, Incontro con i Vescovi del Mediterraneo, Bari, 23 febbraio 2020.