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Discorsi e Interventi del Vescovo (16.05.2021)

16/05/2021 17:22:00

Segreteria Vescovile

#Discorsi e Interventi del Vescovo,

Discorsi e Interventi del Vescovo (16.05.2021)

Discorso per la beatificazione del Giudice Rosario Angelo Livatino

Discorsi e Interventi del Vescovo di Cefalù

S.E.R. Mons. Giuseppe Marciante

Delegato della CESi

per i Problemi sociali, il Lavoro, la Giustizia,

la Pace e la Salvaguardia del Creato

 

Discorso per la beatificazione del Giudice Rosario Angelo Livatino

 

Palazzo Arcivescovile

Agrigento, 16 maggio 2021

 

 

Il messaggio dei Vescovi siciliani in occasione della beatificazione del Giudice Rosario Angelo Livatino rappresenta l’ultima tappa di un percorso che ha avuto inizio dal sacrificio della vita del nostro nuovo martire beato. A seguire, i momenti più significativi di questi trent’anni di cammino, tesi a educare e a responsabilizzare le Comunità tutte alla legalità, via che porta alla speranza.

 

- 21 settembre 1990.

L’omicidio del Giudice Livatino segna una nuova consapevolezza della Chiesa di fronte alla criminalità organizzata. Si comprende l’urgenza di una riformulazione del discorso ecclesiale sulle organizzazioni di stampo mafioso.

 

- 19 aprile 1992.

In tutta la Sicilia continua senza tregua la catena di delitti di mafia. La Chiesa Agrigentina pubblica il documento Emergenza mafia. Un problema pastorale, a firma del Consiglio pastorale diocesano. Dopo una ricostruzione storica volta a individuare i due aspetti complementari del fenomeno - l’organizzazione criminale e la diffusa mentalità mafiosa - il documento passa in rassegna la responsabilità personale e collettiva del silenzio e della connivenza, i segnali per riconoscere la mentalità mafiosa come pratica disumana e antievangelica e il dovere della testimonianza e della profezia nella comunità cristiana oggi. Diverse le prese di posizione dell’arcivescovo, mons. Ferraro Carmelo, per denunciare una situazione dove le forze dell’ordine venivano lasciate sole a condurre la strategia di contrasto alla malavita e alle infiltrazioni mafiose.

 

- 09 maggio 1993.

L’omelia di Giovanni Paolo II nella Messa nella Valle dei Templi nel corso della quale aveva, fra l’altro, illustrato cosa significa aprire la propria vita a Cristo:

 

Quando l’uomo si apre alla fede, sperimenta che l'egoismo è sostituito dall’altruismo, l'odio dall'amore, la vendetta dal perdono, la cupidigia dal servizio amorevole, e l'individualismo dalla solidarietà, la divisione della concordia - così come è chiamato questo antico tempio vicino ad Agrigento -, la violenza dalla misericordia [...]. Quando, invece, si rifiuta il Vangelo e il suo messaggio di salvezza, s’avvia un processo di logoramento dei valori morali, che facilmente ha contraccolpi negativi sulla stessa vita sociale [...]. La vera forza in grado di vincere queste tendenze distruttive sgorga dalla fede [...]. Essa esige qui, nella vostra terra, una chiara riprovazione della cultura della mafia, che è una cultura di morte, profondamente disumana, antievangelica, nemica della dignità delle persone e della convivenza civile.

 

Il fuori programma, a conclusione della Messa, sicuramente è scaturito come un grido del cuore dall’incontro con i genitori del Giudice Livatino in una stanza dell’Episcopio. Un colloquio breve in cui Rosalia rimase quasi paralizzata dall’emozione, mentre Vittorio parlò con il Pontefice e gli volle mostrare il diario del figlio. Giovanni Paolo II lo aprì e mentre leggeva, stringeva fra le mani quelle di mamma Rosalia. Sicuramente le parole del diario e gli occhi di Vittorio e Rosalia hanno colpito profondamente Giovanni Paolo II, fino al punto da indurlo, a conclusione della celebrazione eucaristica a pronunciare quel messaggio a braccio:

 

I templi che sono testimoni oggi della nostra celebrazione eucaristica. E uno ha avuto il nome di “Concordia”. Ecco, sia questo nome emblematico, sia profetico e sia concordia in questa vostra terra. Concordia senza morti, senza assassinati, senza paure, senza minacce, senza vittime. Che sia concordia! Questa concordia, questa pace, a cui aspira ogni popolo e ogni persona umana e ogni famiglia. Dopo tanti tempi di sofferenza, avete finalmente un diritto a vivere nella pace.

 

E rivolgendosi direttamente ai mafiosi disse:

 

Questi che portano sulle loro coscienze tante vittime umane, devono capire, devono capire che non si permette uccidere innocenti! Dio ha detto una volta: “Non uccidere”: non può uomo, qualsiasi, qualsiasi umana agglomerazione, mafia, non può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio! Qui ci vuole civiltà della vita! Nel nome di questo Cristo, crocifisso e risorto, di questo Cristo che è vita, via verità e vita, lo dico ai responsabili, lo dico ai responsabili: convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio!

 

- 28 luglio 1993.

Le autobombe della mafia esplodono a Roma, in San Giovanni in Laterano e in San Giorgio al Velabro. Furono l’avvertimento minaccioso dei capi mafia a una Chiesa uscita dal silenzio.

 

- 15 settembre 1993.

Omicidio di Don Pino Puglisi.

 

- 09 maggio 2018.

Lettera dei Vescovi della Sicilia “Convertitevi” a venticinque anni da quell’appello di Giovanni Paolo II.

In quella lettera, con Giovanni Paolo II, abbiamo rinnovato l’invito “Convertitevi” nei riguardi di coloro, uomini e donne, giovani e adulti, che continuano a violare il diritto santissimo di Dio di "non uccidere" e a calpestare la dignità, la serenità di tante persone, famiglie e comunità. Nel documento resta alto il ricordo delle vittime. Un ricordo che non deve e non può fermarsi a una sola rispettabilissima memoria storica che passa attraverso i nostri libri di storia. Occorre trasferirlo, innestarlo in ogni scelta di vita di ogni cristiano tesa a custodire e a favorire il bene comune, la solidarietà, la giustizia sociale.

 

Erano gli anni in cui i numerosi clan mafiosi, da tempo contrapposti in sanguinose faide per conquistare il potere all’interno degli ambienti malavitosi, ritorcevano la loro brutalità omicida anche verso l’esterno, prendendo di mira chiunque si opponesse loro. Difatti, continuavano a cadere sotto i colpi della mafia molti leali servitori delle istituzioni e non pochi coraggiosi esponenti della società civile: rappresentanti dello Stato, uomini e donne delle forze dell’ordine, magistrati spesso trucidati insieme a qualche loro congiunto, sindacalisti, politici, giornalisti, imprenditori e commercianti, persino giovani e ragazzi coinvolti per vendetta contro i loro familiari, o talvolta per mera casualità, in quella micidiale spirale di morte. I loro nomi costituiscono una sorta di triste litania, troppo lunga per essere recitata a memoria. Nondimeno, avvertiamo come un dovere il permanente ricordo di quelle vittime della mafia e di quegli eroi della legalità, che hanno offerto un preziosissimo contributo a che la vita di tutti noi migliorasse. Essi hanno lottato, ciascuno a suo modo, per affrancarsi e per affrancarci dalla morsa di un potere maligno e abusivo, teso a ipotecare la vita d’intere comunità, a ricattare le coscienze di tanti e a manipolarne le scelte, a guadagnarsi con perversi contraccambi l’appoggio di molti altri poteri forti e occulti, a inquinare la politica e la pubblica amministrazione, a frenare lo sviluppo economico deviandolo verso finalità illecite e piegandolo a privati tornaconti, a minare in vari modi la libera convivenza, ad attentare al bene comune, a rubare dai cuori degli onesti la speranza in un futuro migliore. Un potere capace, finanche, di indurre qualche ministro di Dio, pavido e infedele, a dimenticare il dovere di resistere ad ogni costo a ciò che è contrario al Vangelo.

Con lucido realismo nella Lettera l’Episcopato siciliano evidenzia come in un quarto di secolo si siano verificati tanti cambianti sociali, culturali e pastorali. Alcuni devono essere letti con attenzione. Servono delle tempestive azioni di recupero, prima tra tutte quella legata al senso dell’appartenenza ecclesiale.

Stiamo attraversando una grave crisi del senso di appartenenza ecclesiale. Assistiamo allo sdoppiamento dell’identità del “soggetto appartenente”, il quale nutre ormai una spiccata tendenza alla pluri-appartenenza o all’appartenenza trasversale rispetto a diversi e persino incompatibili “gruppi” o “luoghi” aggregativi. Si fa sempre più labile, anche in campo ecclesiale, il nesso tra appartenenza e senso dell’appartenenza, o tra credenza e appartenenza. Vale a dire che un singolo soggetto può prestar credito a ben precise “dottrine” e, tuttavia, far parte di gruppi o aggregazioni al cui interno la vita viene intesa e organizzata secondo modalità del tutto contrarie a ciò che quello stesso soggetto crede. Si può dare, perciò, il caso che uno professi il credo cristiano e al contempo accetti di diventare membro di una famiglia mafiosa. Si invoca un impegno pedagogico non comune, come quello di Livatino e di Don Pino Puglisi, per chiarire anche il significato della “scomunica” nei confronti dei mafiosi.

 

09 maggio 2021.

In occasione della beatificazione del Giudice Livatino, magistrato e martire, i Vescovi di Sicilia scrivono un nuovo messaggio dove il Beato Rosario Angelo Livatino è definito una benedizione per la nostra terra: uno di noi.

La Sicilia non è solo mafia è anche terra di santi: uno dei nostri giovani.

La nostra bella gioventù è piena della forza della fede, tanti riescono a incarnare alti ideali evangelici: l’amore per il bene comune, la passione per la verità e la sete della giustizia.

Uno dei nostri coraggiosi magistrati che ha vissuto la sua professione a servizio del Regno dentro le aule dei tribunali come dentro le coscienze, garante della legalità e convinto assertore della possibilità di redenzione dei trasgressori.

Uno dei nuovi martiri che ha contrapposto alla logica dello “scambio” tipica del potere mafioso, quella del dono tipica del discepolo di Cristo. Il primo magistrato laico martire.

Alle nostre Chiese il prezioso e profetico compito di raccogliere l’eredità che il beato Livatino ci ha donato e consegnato. È l’eredità di chi ha trovato il coraggio della libertà, squarciando il silenzio della connivenza e decidendo di parlare chiaramente, non solo con parole tecniche mutuate dai linguaggi umani, ma soprattutto con la parola del Vangelo.

Un tratto che lo accomuna all’altro martire, il beato Pino Puglisi, perché ha parlato senza mezzi termini delle mafie e alle mafie.

Ha contribuito ad avviare il processo di riformulazione del discorso ecclesiale sulle organizzazioni di stampo mafioso, ma anche di quello rivolto direttamente agli uomini e alle donne che vi aderiscono. Testimone esemplare della conversione dalle parole ai fatti. Le nostre Chiese sono all’altezza di tale eredità?

I Vescovi si augurano che sulla scia di Giovanni Paolo II, i due discorsi quello del 2018 e quest’ultimo del 2021 non cadano nel silenzio, non si interrompano, perché tacere è la prima strategia del male. “Ce lo insegna la storia della nostra Isola, troppo spesso macchiata di sangue proprio a causa dei silenzi di chi avrebbe dovuto parlare e invece ha taciuto”. Ma non ci si può limitare a parlare di mafia senza parlare ai mafiosi. Se da una parte è necessario prendere le distanze dal silenzio dall’altra occorre dare al discorso sulle mafie un timbro peculiare per evitare di fermarsi alle analisi senza osare strade nuove per vincere il fenomeno con lungimiranza profetica.

Ripartiamo dunque da Agrigento per sviluppare una seria azione comune e sistematica di contrasto nei confronti della mafia che ha trovato altre forme, meno appariscenti e per questo più pericolose.

Anticamente si diceva il sangue dei martiri, seme di nuovi cristiani, oggi possiamo aggiungere il sangue dei martiri è fermento di cittadini onesti.

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