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Omelie del Vescovo (06.08.2019)

06/08/2019 15:16:00

Segreteria Vescovile

#Omelie del Vescovo,

Omelie del Vescovo (06.08.2019)

Santissimo Salvatore

Omelia del Vescovo di Cefalù

S.E.R. Mons. Giuseppe Marciante

 

Santissimo Salvatore

 

Basilica Cattedrale

Cefalù, 06 agosto 2019

 

 

Carissimi fratelli e sorelle,  

questo pellegrinaggio alla Chiesa Cattedrale è come l’andare in casa della mamma. 

Siamo stati tutti partoriti alla fede dalla Madre Chiesa: una, santa, cattolica e apostolica. Essa ha la sua più bella icona in Maria, la Madre di Gesù che nel nostro mosaico è in atteggiamento orante. 

Siamo venuti qui, in questa Chiesa Cattedrale, come i discepoli che sono saliti con Gesù sul monte Tabor. 

Siamo venuti perché ci siamo lasciati catturare da Lui, il Cristo: ci siamo fidati e siamo saliti con lui sul monte alto della contemplazione perché vogliamo essere trasfigurati in Lui ed essere immersi dentro la nube luminosa dello Spirito per udire la sua Parola e contemplare la Gloria del suo volto:   

 

Parlaci Signore, il nostro cuore ti ascolta.

Mostraci il tuo volto e noi saremo salvi,

o Salvatore del mondo.  

 

1. "Fu trasfigurato davanti a loro".

 

L’Evangelista Marco racconta che Gesù fu trasfigurato davanti a loro. Questa esperienza avviene perché Lui li prende e li porta su un monte alto: il monte è il luogo della rivelazione di Dio. 

C’è un luogo dove Dio si rivela ed è dove noi siamo soli con Lui, cioè la trasfigurazione è un’esperienza che ciascuno di noi ha nella comunione con Gesù, nell’intimità con Lui, nell’ascolto della sua parola. E lì si dice che si trasformò - in greco c’è metamorfosi, che vuol dire cambiare forma. Al contrario delle metamorfosi degli antichi miti greci e romani dove il divino cambia forma o si camuffa di umano o animale, qui l’umanità di Gesù fa brillare tutta la luce di Dio. 

Il corpo di Cristo è lo strumento dell’esplosione della luce, come commenta David Maria Turoldo: «un corpo che gronda luce» [1]. Cristo non cambiò la sua identità, ma dall’interno una luce ne rivelò la gloria, la bellezza. Tutte le icone bizantine hanno come modello la trasfigurazione perché in esse la luce viene dall’interno. In modo paradossale Cristo è «il più bello tra i figli dell’uomo e sulle sue labbra è diffusa la grazia» (Cfr. Sal 44.), ma allo stesso tempo «non ha apparenza, né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per provare in lui diletto» (Is 53,2) così come Gesù aveva preannunciato sei giorni prima nel capitolo ottavo durante la rivelazione della sua passione morte e risurrezione, ossia della sua Pasqua. 

Sta qui la trasfigurazione: lo splendore della bellezza si sprigiona dal volto sfigurato dell’uomo dei dolori, uno davanti al quale ci si copre la faccia. È il volto di colui che "è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità [...] per le sue piaghe noi siamo stati guariti". Gloria e sofferenza vanno insieme nell’opera salvifica di Cristo. 

L’antica consuetudine liturgica della nostra Basilica Cattedrale prevede che oggi, all’offertorio, insieme al pane e al vino per l’eucaristia siano portati all’altare il pane e i pesci - emblema "cristologico" della nostra Città - e un grappolo di uva matura. Il diacono prende un chicco di questa uva e lo spreme nel calice.  Questo semplice rito esprime proprio il legame tra la sofferenza e la gloria, perché come dall’uva matura torchiata nasce il vino, così dalla passione di Cristo sgorga la salvezza dell’uomo e di tutto il cosmo. 

Nel sangue di Cristo noi siamo trasfigurati. I teologi medievali spiegano questo rito richiamando le parole che il Signore rivolse ai suoi discepoli la sera dell’ultima cena: "Io vi dico che da ora non berrò più di questo frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo con voi nel regno del Padre mio" (Mt 26,29). Con la Pasqua, Cristo è entrato nel Regno del Padre e per il battesimo anche a noi è stata donata questa vita divina. 

Nella Trasfigurazione noi pregustiamo con Cristo il vino nuovo della nostra divinizzazione. I due monti, il Tabor e il Calvario, sono così di fatto significativamente legati.

La trasfigurazione non può essere compresa se non alla luce della croce, né la croce può essere compresa se non alla luce della trasfigurazione e, ugualmente, della resurrezione. Ciò diventa più chiaro se guardiamo più da vicino alla narrazione evangelica. Possiamo chiederci: chi sono i tre discepoli che accompagnano Gesù sulla cima della montagna? Sono Pietro, Giacomo e Giovanni. E chi sono i tre discepoli presenti con Gesù al Getsemani? E a chi permise di seguirlo per assistere alla risurrezione della figlia di Giàiro? Proprio i medesimi tre: Pietro, Giacomo e Giovanni (Mc 14,33). Proprio come non è una coincidenza che Cristo parli del portare la croce immediatamente prima della sua trasfigurazione, così non è una coincidenza che gli stessi tre discepoli siano presenti sia sulla cima della montagna sia all’agonia nel giardino del Getsemani. 

Testimoni della sua gloria increata, essi sono testimoni anche dello "sfiguramento". I tre appartengono a coloro che non subiranno la morte finché non vedranno il regno di Dio venire con potenza (Mc 9,1).  

 

2. "Le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche".

 

La veste bianca ci richiama la resurrezione di cui la trasfigurazione è un’anticipazione. La trasfigurazione è proprio l’esperienza del battesimo, non a caso i neofiti indossavano la veste bianca per sette giorni, proprio per indicare la novità di vita. 

Sant’Agostino spiega che i suoi vestiti sono la sua Chiesa: «Che c’è di strano se mediante il vestito bianchissimo viene simboleggiata la Chiesa, dal momento che sentite dire dal profeta Isaia: Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, lì farò diventare bianchi come neve (Is 1,18)?» [2]. Dunque anche se i peccati commessi dagli uomini di Chiesa fossero di colore rosso scarlatto, la sua Sposa avrebbe comunque un abito candido e rilucente grazie al Sole, Cristo».   

Anche noi trasfigurati. Ciò che si è realizzato in Gesù, nostro Capo, deve completarsi in noi, che siamo il suo Corpo. Non si deve pensare che la trasfigurazione si produrrà solo nell’aldilà, dopo la morte. La vita dei santi e la testimonianza dei martiri c’insegnano che, se la trasfigurazione del corpo avverrà alla fine dei tempi con la resurrezione della carne, quella del cuore ha luogo ora su questa terra. Con l’aiuto della grazia la mia vita viene trasfigurata dall’ascolto della parola in vita di figlio di Dio, suo fratello, simile a Lui.  Possiamo domandarci: chi sono gli uomini e le donne "trasfigurati"? 

La risposta è di San Giovanni Paolo II, quando nel corso della beatificazione di 233 martiri spagnoli (11 marzo 2001) disse: «sono quelli che seguono Cristo nella sua vita e nella sua morte, s’ispirano a Lui e si lasciano inondare dalla grazia che Egli ci dà; sono quelli il cui nutrimento è compiere la volontà del Padre; quelli che si lasciano guidare dallo Spirito; quelli che non antepongono nulla al Regno di Cristo; quelli che amano gli altri fino a versare il proprio sangue per essi; quelli che sono disposti a dare tutto senza esigere nulla in cambio; quelli che, in poche parole, vivono amando e muoiono perdonando». 

Tra questi santi, vorrei oggi ricordare il Beato Paolo VI che, proprio la sera del 6 agosto - quarant’anni fa la sua morte - ricevette dal Signore il sigillo della sua santità perché ha amato la bellezza umana e divina del Figlio di Dio e in questa luce il Signore lo prese con sé sul monte alto della beatitudine eterna. E come non ricordare la prima Enciclica, l’Ecclesiam Suam, pubblicata appena nel secondo anno del pontificato, il 6 agosto 1964. Essa fu considerata una sorta di "programma" di Papa Montini: nella stessa Enciclica egli stesso spiegò come fosse suo scopo «manifestarvi alcuni nostri pensieri, che sovrastano agli altri dell’animo Nostro e che ci sembrano utili a guidare praticamente gli inizi del Nostro pontificale ministero». 

Indicò le quattro «priorità» che la prosecuzione dei lavori conciliari poneva all’attenzione dell’assemblea conciliare: la chiara formulazione della coscienza che la Chiesa deve avere di se stessa, l’importanza di rinnovare la trasparenza della sua identità, la generosa dedizione alla causa dell’unità fra i cristiani, l’adozione di un atteggiamento di comprensione e di amicizia di "dialogo" nei confronti del mondo che deve essere incoraggiato ad aprirsi al Vangelo. 

 

3. "Poi discesero dal monte".

 

Discendono dal monte con un programma ben preciso: "ascoltatelo" e un segreto da custodire fino al giorno della risurrezione. Prima devono fare l’esperienza dell’ascolto, poi potranno parlare. Prima devono sperimentare la pasqua di morte e risurrezione e poi in qualità di testimoni potranno parlare come farà Pietro: «Carissimi, vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del Signore nostro Gesù Cristo, non perché siamo andati dietro a favole artificiosamente inventate, ma perché siamo stati testimoni oculari della sua grandezza» (2Pt 1,16).   

 

Vi auguro, carissimi, di realizzare nelle vostre comunità la chiesa dell’ascolto e dei volti, ossia la chiesa che vive di ogni parola che esce dalla bocca di Dio e la Chiesa che cura le relazioni: accogliente, solidale, amica degli uomini e delle donne del nostro tempo. Amen.   

  
[1] D. M. Turoldo, Le stelle in cammino, Bologna 2017. 

[2] Agostino, Discorso 78.

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