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Statio Ecclesiae Cephalocensis

14/06/2021 12:56:00

Addetto Stampa

Diocesi,

Statio Ecclesiae Cephalocensis

Omelia del Cardinale Marcello Semeraro

Omelia di S.Em.za R. Card. Marcello Semeraro

Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi

 

Teatro Pietra Rosa
Pollina, sabato 12 giugno 2021

 

1. «Voi siete tutti compagni di viaggio (σύνοδοι) in virtù della dignità battesimale e dell’amicizia con Cristo» (IX, 2). Lo scriveva sant’Ignazio di Antiochia, un santo dell’età apostolica, ai cristiani di Efeso. Un altro antico autore, a sua volta, esortava: «Credi in Cristo Gesù. Egli ti sarà compagno (σύνοδος) lungo il sentiero pericoloso, ti sarà guida verso il regno suo e di suo Padre» (Acta Thomae, 103). Ancora la parola «sinodo»! Ecco, carissimi: noi oggi ricorriamo al termine sinodalità, che è, però, una parola astratta; parliamo di sinodi e con questo intendiamo eventi, che si trovano radunati insieme. All’inizio dell’uso, al contrario, sinodi sono delle persone: sinodo è Cristo, nostro compagno di cammino; sinodi siamo noi, pellegrinante popolo di Dio. In tale contesto, di persone che camminano insieme, possiamo leggere pure l’affermazione di san Giovanni Crisostomo per cui Ἐκκλεσία συνόδου ἐστὶν ὄνομα: «Chiesa è nome che sta per cammino insieme» (Exp. in Psalm., 149, 1: PG 55, 493). Sinodo e Chiesa sono sinonimi e questo lo capiamo soltanto se sappiamo che si tratta sempre di «persone che si incontrano».

Questo grande mistero possiamo riconoscerlo nel racconto di Emmaus, su cui il vostro Vescovo ha scritto una bella lettera pastorale. Torniamo, allora, per qualche momento su quell’episodio. Due discepoli sono in cammino da Gerusalemme verso Emmaus. Il loro, ha tutto il carattere di un cammino «dimissionario». Sono sfiduciati per il tragico concludersi degli eventi, cui hanno assistito e se ne tornano via alle loro case. Rinunciano alla «missione», che Gesù aveva loro affidato nei giorni della sua vita terrena. Gesù li aveva mandati «a due a due» (cf. Mc 6,7; Lc 10,1) e a due a due se ne tornano via! La crocifissione del loro Maestro, infatti, era da considerarsi come uno scacco ed un fallimento senza speranza.

Il Signore, però, si rende a loro presente non più come nei giorni della sua vita terrena, bensì nella nuova condizione di Risorto, proprio in quella medesima maniera con cui oggi lo è a tutti noi, cioè in mysterio: nella Parola e nel Sacramento. Gesù «parla», infatti, con loro, spiegando il senso delle Scritture; poi si ferma e accoglie l’invito dei due a rimanere con loro. Ed ecco che, dopo averlo ascoltato, lo riconoscono nello «spezzare il pane». La Chiesa antica ha dato a questo gesto il nome di sinassi (σύναξις), «riunione». È la sinassi eucaristica. Subito, però, i due discepoli si alzano e riprendono il cammino, questa volta all’inverso. La «dimissione» si trasforma in «missione». Giunti nella Città Santa annunciano che Cristo è risorto. È questo, vorrei dire, il loro sinodo, il loro mettersi insieme per via al fine di annunciare la Pasqua.

Com’è facile osservare, in questo racconto sinassi e sinodo stanno insieme e sono l’uno conseguenza dell’altra: il «camminare insieme» succede allo «stare insieme», ne è il connaturale sviluppo, l’esigenza interiore. Ciò avvenne in figura per tutti noi, che siamo pellegrini su questa terra alla ricerca della Città celeste e che, per questo, ci fermiamo lungo la strada (statio), per nutrirci insieme del «pane del cielo» e quindi riprendere insieme il cammino. Chi cammina, avverte il bisogno di fermarsi: per un po’ di riposo, per rifocillarsi… Anche noi ora ci siamo fermati: non per andare al motel e prendere un caffè, ma per nutrirci di Cristo, «pane vivo disceso dal cielo» (Gv 6,51). Non per altro, infatti, ci è donata l’Eucaristia, se non per essere, come fa cantare san Tommaso, cibus viatorum: «cibo per coloro che camminano». Nella seconda lettura della Messa (cf. 2Cor 5,6-10) ci è stato detto che siamo addirittura in cammino di esilio: è la nostra condizione terrena, è la dimensione escatologica della vita cristiana: non contempliamo ancora faccia a faccia il suo volto; incontriamo in Signore in mysterio.

 

2. È doveroso, tuttavia, che, preparandoci ad assumere il pane eucaristico, ci facciamo alimentare dalla Parola, che il Signore già ci ha donato mediante una pagina di vangelo (cf. Mc 4,26-34) dove – pur senza forzature – possiamo riconoscere alcuni aspetti di tipologia sinodale.

Si tratta di due brevi parabole unificate dal tema della semina. Diversi sono, però, i contesti. Nel primo caso emergono le figure del seminatore e del seme che spunta e cresce da solo, seguendo alcune tappe che sono, nel nostro caso, la fioritura dello stelo, quindi lo spuntare della spiga, poi il suo crescere e ingrossarsi e, da ultimo, la tappa della maturazione. Solo a questo punto il seminatore diventa mietitore.

San Gregorio magno ne farà una spiegazione allegorica riconoscendo in quel progredire il processo di una vita virtuosa. Essa inizia con il concepire dei buoni progetti (non è importante in un sinodo avere dei buoni progetti, dei sani desideri?) e prosegue poi col «dormirci su» (come diremmo noi), per vedere meglio, per avere una mente più disponibile, per staccare l’ansia che inevitabilmente ci assale quando insorgono dei problemi. È un sostare – come intendiamo fare con questa statio Ecclesiae – che non significa «stare fermi», quanto piuttosto assumere punti di vista differenti e scoprire, così, delle diversità e ottenerne ulteriori stimoli. Fare, insomma, come fa l’artista il quale, mentre dipinge la sua opera, si allontana dalla tela per osservare meglio, per intervenire al fine di correggere, o abbellire.

E poi, proseguiva Gregorio, occorre crescere lasciandosi aiutare dalle opere buone, ossia avviando opportune pratiche pastorali e prudenti sperimentazioni sì da meglio discernere ed è così che diventiamo una spiga. Quando, poi, ci rafforziamo nella perfezione della nostra condotta siamo pronti per diventare buon grano (cf. Omelie su Ezechiele, II, 3, 5: PL 76, 960-961).

La sinodalità – alla luce di questo possiamo ben capirlo – non è anzitutto prendere decisioni, ma piuttosto avviare processi lunghi, lenti e spesso anche faticosi di condivisione e di maturazione; è rispettare pazientemente delle tappe di crescita, senza affrettare i tempi, o cedere all’efficientismo.

La sinodalità è discernimento messo in comune. Discernimento è una parola oggi molto ricorrente, anche a motivo dell’uso fattone dal Papa. Discernere è un verbo che vuol dire vuol «setacciare», vagliare, distinguere le voci del cuore che ci abitano per poter fare scelte libere, responsabili e consapevoli. È un verbo classico della spiritualità ignaziana, che implica almeno due cose. La prima è cercare la volontà di Dio quale si fa conoscere dal suo stile, che appare dalla storia della salvezza. La prima lettura biblica della Messa di questa XI domenica del t.o. (cf. Ez 17,22-24) ci ha un po’ richiamato lo stile di Dio: «io sono il Signore, che umilio l’albero alto e innalzo l’albero basso, faccio seccare l’albero verde e germogliare l’albero secco». Ci sono anche delle corrispondenze col racconto della pagina evangelica di oggi, ma c’è soprattutto un bellissimo anticipo del Magnificat della Vergine Maria.

Il discernimento comporta anche quella che da san Giovanni XXIII e dal Concilio Vaticano II in poi sono chiamati segni dei tempi. «Si tratta – diceva san Paolo VI – di individuare “nei tempi”, cioè nel corso degli avvenimenti, nella storia, quegli aspetti, quei “segni”, che […] ci possono essere indizi […] d’un qualche rapporto col “regno di Dio”, con la sua azione segreta, ovvero – ancor meglio per il nostro studio e per il nostro dovere – con la possibilità, con la disponibilità, con l’esigenza di un’azione apostolica» (Udienza generale del 16 aprile 1969: il mondo diventa libro, diceva quel Papa).

La seconda opera del discernimento è l’esame di come attuare la volontà di Dio conosciuta, seguendo per questo la legge del bene possibile (cf. Evangelii gaudium, n. 44). Quello che ci vien chiesto non è di attuare il bene in assoluto! Quale creatura potrà mai farlo? Scrive il Papa: «Un piccolo passo, in mezzo a grandi limiti umani, può essere più gradito a Dio della vita esteriormente corretta di chi trascorre i suoi giorni senza fronteggiare importanti difficoltà. A tutti deve giungere la consolazione e lo stimolo dell’amore salvifico di Dio, che opera misteriosamente in ogni persona, al di là dei suoi difetti e delle sue cadute».

La sinodalità comporta, ancora, il mettere in comune il proprio discernimento, avendo l’intelligenza di proporre e l’umiltà di non imporre; praticando la generosità del donare, ma anche l’umiltà del domandare; nutrendo l’intima gioia di partecipare, ma pure la modestia di non volersi vincitore a tutti i costi… «Se non si approva quello che dico io, non do il mio voto positivo…»: nei vari consigli e nelle diverse riunioni accade che, anche se non lo dice qualcuno lo pensi; questo, però, ha il volto della testardaggine e non della sinodalità!

 

3. La seconda parte della pagina odierna dal santo vangelo mette al primo posto la tensione fra gli inizi apparentemente insignificanti e il magnifico risultato finale. Quando viene seminato nel terreno, il granello di senape «è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno», dice il vangelo. Il processo sinodale spesso ci porta a confrontare il poco che abbiamo col molto di cui avvertiamo il bisogno. Potrebbe allora accadere che ci lasciamo sopraffare dal senso d’inadeguatezza, o bloccare dal timore di fallire. Quante volte, per non sbagliare rimaniamo immobili. Occorre, al contrario, avere fiducia nell’opera di Dio.

In Gaudete et exsultate Francesco scrive: «Il discernimento è necessario non solo in momenti straordinari, o quando bisogna risolvere problemi gravi, oppure quando si deve prendere una decisione cruciale. È uno strumento di lotta per seguire meglio il Signore. Ci serve sempre: per essere capaci di riconoscere i tempi di Dio e la sua grazia, per non sprecare le ispirazioni del Signore, per non lasciar cadere il suo invito a crescere. Molte volte questo si gioca nelle piccole cose, in ciò che sembra irrilevante, perché la magnanimità si rivela nelle cose semplici e quotidiane» (n. 169). Anche un sinodo è uno strumento per seguire meglio il Signore.

In effetti, come ricorda san Paolo, chi fa crescere è Dio (cf. 1Cor 3,6-7)! Nel cammino sinodale può accadere come nel racconto di Emmaus: all’inizio i discepoli parlano fra di loro e discutono, ma inutilmente e vacuamente. Lo stesso Signore dice loro: ma che andate dicendo? «Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?» (Lc 24,17). Guai se in una riunione sinodale accadesse questo!

Il discorso dei due che andavano verso Emmaus diventa sensato e convincente solo quando avranno accettato l’«esegesi» delle Scritture fatta da Gesù, messo da parte i loro pregiudizi e veduto il suo spezzare il pane. Solo a partire da questo punto il loro non è più un discorrere tra loro (cf. Lc 24,17), ma un’autentica comunicazione (cf. Lc 24,35: «narravano ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane»).

Solo a queste condizioni il processo sinodale produce una realtà grande, accogliente e ospitale: «è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra». Sant’Agostino spiegherà che questo piccolo grano di senape è Cristo, il quale «nel momento della sua umiliazione non si pose in vista; ma poi nel germogliare e nel crescere superò tutte le altre realtà, estendendo i suoi rami in ogni direzione e invitando a rifugiarsi e a riposarsi in lui, come se fossero degli uccellini, tutti coloro che hanno il cuore gonfio» (Sermo 223 H: PLS 2, 739).

Sarebbe davvero bello per una Chiesa, come questa di Cefalù, diventare, come Cristo, una casa ospitale, accogliente; un porto dove si riposano «tutti coloro che hanno il cuore gonfio». Sappia, questa Chiesa di Cefalù, farsi eco alla voce di Gesù che dice: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro» (Mt 11,28).

 

È il mio augurio per te, carissimo fratello vescovo Giuseppe, e per la Chiesa che il Signore ti ha affidato; è la mia preghiera con tutti voi, questa sera.

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